Tuesday, June 16, 2009

ISTITUTO GIAPPONESE DI CULTURA A ROMA. INIZIATIVE

L'Istituto Giapponese di Cultura a Roma, in via A. Gramsci.



Una serie di iniziative culturali contraddistingue in questo periodo dell’anno, tra marzo-aprile-maggio-giugno, le attività dell’Istituto Giapponese di Cultura a Roma: mostre, conferenze, cinema, musica. Di alcune di esse abbiamo già scritto qui di seguito; di altre vi daremo notizie nei prossimi giorni.
Ettore Mosciàno


Le mostre allestite:

1 - "SCRIVERE IL CIELO" - Aquiloni di carta giapponese, stecche di bambù e filo di cotone. La mostra mette in esposizione i modelli dinamici e leggeri, di strardinaria arte fantastica di uno dei più conosciuti maestri di "tako" giapponesi, Toshiharu Umeya, assieme alle opere di Anna Onesti, anch'ella nota artista per i suoi lavori con le carte dipinte in stile orientale (28 marzo-9 maggio 2009, Ist.Giapponese di Cultura, Roma).

2 - "SUMI-E A ROMA" è una mostra di pitture a inchiostro dello Studio Toba Chiba di Roma che, dal 1975, è stato creato ed opera, come centro di lavoro artistico e studio, dall'artista pittrice e insegnante Ikuyo Toba. In mostra i lavori di alcuni dei tanti allievi e della stessa direttrice del Centro (dal 20 maggio al 26 giugno 2009, c/o Ist. Giapponese di Cultura Roma).

3 - "IL FIORE DEL MERAVIGLIOSO - Il teatro giapponese nella storia tra rottura e continuità"




"Il fiore del meraviglioso" è una mostra di collaborazione tra Istituto Giapponese di Cultura, la Casa dei Teatri di Roma e il Museo del Teatro dell'Università Waseda di Tokyo. Un panorama di immagini fotografiche antiche, nuove e contemporane, con maschere, manifesti e video, delle diverse particolari tradizioni teatrali giapponesi, con le loro pluralità espressive: il teatro "No", il "Kyogen, il "Kabuki" e il "Bunraku" (tradizionale teatro dei burattini); e quindi, delle avanguardie e della modernizzazione del teatro all'occidentale, con lo "Shinpa" e lo "Shingeki" (la nouvelle vague del teatro giapponese); ed ancora l'underground teatrale "Angura" e la fisicità e la danza del "Buto", una forma di espressione teatrale che mette tutto in giuoco, oltrepassando vecchie tradizioni, realismo e quotidianità, per darci la fantasia di un "corpo teatrale anarchico" che si muove tra riaffermazioni delle tradizioni giapponesi del teatro classico e "rivoluzioni" psicologiche permanenti, con proteste e critiche contro le strutture di potere, ed anche perché il teatro non sia rappresentazione ripetitiva e oggetto di consumo.


In un bel catalogo, di cui vi diamo la copertina in immagine, si parla ampiamente di queste forme di teatro, con le parole del Direttore dell'Istituto Giapponese di Cultura in Roma, ed esperto di teatro, il Dott. Kazufumi Takada; con Yosuke Taki regista teatrale e artista; con diversi scritti di Fabio Mangolini esperto di teatro; con le parole di Tadashi Ogasawara, maestro Kyogen della scuola Izumi; con Bonaventura Ruperti del Dipartimento di Studi sull'Asia Orientale - Università Ca' Foscari di Venezia; con Nicola Savarese, docente di Discipline dello Spettacolo all'Università degli Studi di Roma Tre; con Itsuki Umeyama della Waseda University Tsubouchi Memorial Theatre Museum di Tokio. In catalogo, anche l'introduzione alla Mostra dell'Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma, Dott. Umberto Croppi (La mostra presso la Casa dei Teatri - Villa Corsini a Villa Panphili, dal 27 maggio al 6 settembre 2009).

Per il Cinema:

Vi sono state nuove acquisizioni della Cineteca dell’Istituto con proiezioni di tre nuovi film; si tratta di:
1 - “ALWAIS- TRAMONTO SULLA TERZA STRADA” di Takashi Yamazaki, del 2005 (il 21 aprile);
2 - “LA GIOVINEZZA DI ETSUKO KAMIYA” di Kazuo Kuroki, del 2006 (il 5 maggio) 3 - “COSA CHIEDO ALLA NEVE” di Kichitaro Negishi, del 2006 (il 12 maggio).

Per la Musica:

1 - Il Progetto “Calliope”, concerto di musica contemporanea organizzato dall’Auditorium Parco della Musica. Progetto che coinvolge i vari Istituti Culturali stranieri presenti a Roma. A rappresentare il Giappone tra i compositori partecipanti ci sarà il giovane Takuya Imahori (Auditorium Parco della Musica in Viale De Coubertin, il 26 maggio alle 21.00).

2 - “MUSICA FUTURISTA GIAPPONESE” nell’ambito della 6^ edizione di “MEDITERRANEA – Festival Internazionale della Letteratura e delle Arti”. L’Istituto ospita un concerto di musica futurista giapponese per pianoforte e voce (9 giugno ore 20.00, Auditorium Istituto Giapponese di Cultura, via A. Gramsci, 74)

(Ve ne parliamo qui di seguito sul blog).





3 - “IL VIOLONCELLISTA GAUCHE”. Omaggio musicale da parte della pianista Kaoru Tashiro al Maestro Kenji Miyazawa (1896-1933), famoso scrittore di fiabe e brani musicali, autore anche della canzone “Il violoncellista Gauche” (12 giugno ore 20.00, Auditorium Istituto Giapponese di Cultura, via A. Gramsci, 74).






4 - “BLENDRUMS” , un trio, con Leonard Eto alle percussioni taiko (tamburi giapponesi a cornice con superfici bipelle), Suji ballerino di tip-tap, Natsuki Kido alla chitarra. Un percussionista di fama mondiale, un chitarrista eclettico e un tip-tapper di formazione hiphop; e, come dice la locandina, “un concerto in anteprima europea che promette sorprese” (18 giugno, ore 20.00, Auditorium Istituto Giapponese di Cultura, via A. Gramsci, 74).



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FUTURISMO MUSICALE E POETICO DAL GIAPPONE. ISTITUTO GIAPPONESE DI CULTURA A ROMA.

Scoperte di creatività dell’arte futurista in Oriente. Prima esecuzione assoluta europea delle musiche di compositori giapponesi. Stretta collaborazione tra l’Associazione Culturale “MEDITERRANEA - Festival Intercontinentale della Letteratura e delle Arti”, alla sua 6^ edizione, e l’Istituto Giapponese di Cultura di Roma. Il concerto arricchito dalla lettura di composizioni poetiche di autori che si sono richiamati al movimento futurista di Marinetti del 1909. Attenta ricostruzione storica e presentazione dei compositori e delle opere.
Il 9 giugno 2009, ore 20, presso L’Istituto Giapponese di Cultura di Roma, via Antonio Gramsci, 74.
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di Ettore Mosciàno







Il centenario dalla pubblicazione del primo manifesto futurista a Parigi (1909) ha dato occasione anche all’Istituto Giapponese di Cultura a Roma, al Direttore Kazufumi Takada e alle curatrici del programma Ayami Moriizumi e Yoshiko Takagi, in collaborazione e su proposta di “Mediterranea - Festival Internazionale della Letteratura e delle Arti”, nelle persone di Filippo Bettini Direttore del Festival e Fausto Razzi supervisore delle ricerche artistiche, di far emergere e conoscere qui a Roma una cultura futurista maturata in Giappone dal 1920 in poi.
Il Direttore dell’Istituto Kazufumi Takada ha salutato gli intervenuti facendo loro presente lo stretto e significativo vincolo artistico culturale che l’evento riveste nell’ambito delle relazioni sempre più costruttive tra l’Italia e il Giappone. Culture di radici diverse che in un momento storico si incontrano e si contaminano, con sviluppi di creatività ed esiti che hanno avuto ripercussioni sulle arti dei due paesi e sono ancora oggi contaminanti le attività delle giovani generazioni.
Ci si renderà conto di ciò ascoltando le musiche e le poesie presentate, scorrendo le schede biografiche dei compositori: giovani avventurosi e immersi nello studio che spesso hanno lasciato il loro paese per conoscere altre culture, specializzarsi, comporre, formare gruppi, fondere musica occidentale e quella tradizionale giapponese, suscitando curiosità e polemiche.

Il concerto e il programma. Al pianoforte Satoko Kawabata, con laurea e perfezionamento in Giappone, ricercatrice di nuove espressioni musicali d’avanguardia, capacissima professionista che ha saputo cogliere con abilità le caratteristiche di questi “accenti giuocati” delle musiche futuriste, validissimi brani nel contesto mondiale musicale e nel panorama del contemporaneo, soprattutto. Agilissima e sensibile, l’artista, nella lettura e nel mettere a fuoco con le entrate ed uscite dai ritmi, questa produzione sperimentale musicale di autori giapponesi che hanno guardato con entusiasmo alle arti nuove d’Europa.


Le voci recitanti le poesie di Renkichi HIRATO (1893-1922) e Tai KANBARA (1898-1977) sono state quelle della curatrice del programma dell’Istituto Giapponese di Cultura, Ayami Moriizumi per i testi in giapponese, bravissima significativa interprete recitante per gesto e timbro – possiamo dire – e quella di Laura Valentini nella traduzione italiana; quest'ultima, poetessa lei stessa, disinvolta, con qualità recitative ed interpretative di molta sensibilità e sicurezza.

I canti li abbiamo ascoltati dalla voce del mezzosoprano Erika Misumi: una giovane specializzata all’Università Toho Gakuen che ha anche conseguito il Master dell’Opera Studio della Nikikai. Dal 1993 lei studia in Italia con Fiorenza Cossotto. Diplomata presso il Conservatorio Statale di Torre Franca. Nel 2008 segue a Losanna un programma di studio del Ministero della Cultura giapponese. Ha preso parte a numerose opere liriche e si è specializzata in canti di oratorio.
E' una appassionata voce dal timbro delicato, controllatissima, capace di trarre dai testi sensibilità e sfumature, vocalizzi, soffi, drammaticità e suoni caratterizzati da pathos.

Gli autori musicali presentati:

Giichi Ishikawa (1887-1993) che, giovanissimo, parte per gli Stati Uniti per studiare composizione e pianoforte e, tornato in patria, fonda “l’Associazione dei compositori giapponesi”. La sua produzione musicale è caratterizzata da opere radicali, come la “Rapsodia dei cento dollari” (1932), “Il vortice” (1933) e opere vicino al Dadaismo come “La prima colazione” del 1935 e “Tre cartoline” del 1936.

Noboro Itō (1903-1993) studia trombone e suona nella banda della marina, nelle orchestre di cinema muto e poi nell’orchestra sinfonica del Giappone; studia le nuove tecniche di composizione europee, la multi tonalità di Milhaud e l’atonalità di Schönberg, la microtonalità di Alois Haba e le tecniche di Stravinskij e Satie. Nel 1931 scrive un articolo intitolato “Il paesaggio musicale della città”, sulla rivista “Mondo musica”, in cui chiama “sinfonia futurista” rumori e suoni che scaturiscono dai jazz-caffè, dai negozi e dalla radio, mescolati a quelli delle macchine, biciclette, moto, treni, sandali di legno, grida di venditori. Sono di questo compositore il “Canto al sole”, primo esempio di canto vocalizzato composto in Giappone (1930) e “Dopo il bacio” (1930), dal testo del poeta Rofū Miki (1889-1964), che apre, per le nuove generazioni, temi sentimentali simbolici significativi, mai prima trattati con tanta evidenza.

Tadashi Ōta (1901- ?), autodidatta, studia pianoforte e composizione fino a raggiungere posizioni significative ed entrare nell’attuale Orchestra Sinfonica di Tokio. Ha collaborato con il precedente musicista Noboro Itō come pianista; è stato ricercatore sull’atonalità e sulla microtonalità. La sua opera per due pianoforti “La composizione della città” (1934), formata da dieci pezzi, porta i seguenti significativi titoli, che mostrano l’influenza del Futurismo: “Tubo di scappamento”, “Meccanismo”, “La luce e la sensazione”. Del 1935 è il suo “Segnale di traffico” per pianoforte. Dal 1937 al 1941 è direttore musicale della casa cinematografica Tohō e poi pianista nell’Orchestra Tohō. I suoi “Nuvole” e “Giungla” , presentati in concerto, sono due brani per pianoforte tratti dal “Canto primitivo”. Non si hanno notizie recenti sulla sua attività e sulla sua vita.

Shunsuke Kurashige (1906-2000), laureato presso l’attuale Università di Musica Kunitachi, ha studiato a Parigi ed ha avuto come maestro di composizione Henri Tomasi. Introduce in Giappone le chansons francesi e scrive operette (“Io e te”, “Lo sposo di Mahomenia”). La sua musica ”Lo spartito dell’odio blu” ha come testo una poesia di Joan Tomita e richiama il teatro Noh: un canto con influssi impressionistici francesi adattati alle tonalità della lingua giapponese.

Gorō Ishii (1903-1978), compositore, uno dei quindici membri della “Federazione giapponese dei compositori di nuove tendenze” e della “Lega della musica proletaria”; compone musiche per balletti ed è fondatore del “Gruppo Musica Nuova” assieme a già citato Noboro Itō. Dal settembre del 1937 fino al luglio 1938 è a Parigi e a Berlino per perfezionare lo studio della composizione. Le sue opere per pianoforte “La scultura melanconica”, “Un certo schizzo” sono accostate alle opere di Debussy e di Scriabin; e le cinque opere “Dai ricordi del paese natale” sono frutti dalle ricerche sulle canzoni popolari e ritmi di danze di Akita, da cui trae spunti per numerosi pezzi d’ orchestra e canti recitativi di stile particolare, per solisti. “Il desiderio d’amore”, dal ritmo energico e crescente per esaltare parola e versi e creare uno stato di trascendenza, nasce dalla collaborazione tra Ishii e il poeta e studioso di Buddhismo Tsuneo Nagata, nel 1929.


Il maestro compositore dell'avanguardia musicale giapponese: Töru Takemitsu (1930-1996).




Le avanguardie musicali giapponesi risalgono agli anni ’20 con il maestro Yasuji Kiyose (1900-1981) e Töru Takemitsu (1930-1996), suo allievo; ma, è nel 1975, grazie ad un critico musicale, Kuniharu Akiyama, che vengono riportati alla luce, e fatti conoscere, i nomi e le opere di due artisti-compositori del tutto dimenticati a causa della guerra (la seconda mondiale).


Così, Giichi Ishikawa e Noboru Itō, tornano musicalmente alla sensibilità artistica degli spettatori quando si realizza il Concerto “La musica futurista giapponese dimenticata” (“Wasurerareta Nihon no miraiha ongaku”) al Tokio Bunkakaikan, il 31 gennaio 2000.


In Giappone, il Futurismo fu introdotto da una traduzione del Manifesto del Futurismo effettuata da Ōgai Mori. Questa nuova sfida artistica europea stimolò artisti di varie discipline, i quali erano desiderosi di staccarsi dalle arti ufficiali e tradizionali per trovare nuove identità, soprattutto per ciò che riguardava la pittura e la poesia. Nel 1920 venne fondata l’ “Associazione dell’arte futurista” (”Miraiha bijutsu kyōkai”) da Gyō Fumon (1886-1972), come apprendiamo dalle note consegnateci dall’Istituto Giapponese di Cultura. All’Associazione parteciparono artisti-pittori molto legati alle tecniche tradizionali, tra cui Chikuha Odake (1878-1936); ma è con l’arrivo dell’artista futurista russo David Davidovic Burliuk (1882-1967) che si ebbe in Giappone un notevole sviluppo della poetica futurista.


Tre opere di Chikuha Odake (1878-1936):"The Moisture of the Moon", "The Heat of the Sun", "The Chill of the Stars".(Cliccare sullle immagini per ingrndirle).


Il russo David Davidovich Burliuk (1882-1967) che contribuì significativamente a diffondere la poetica futurista in Giappone; sotto, un suo manifesto sul Futurismo. (Cliccare sulle immagini per ingrandirle).





Il compositore Kōsaku Yamada fu guida alla crescita di altri artisti, come Seiji Togō (1897-1978), il quale ebbe anche occasione di conoscere Marinetti con la sua partecipazione al movimento futurista in Italia nel 1922. Poeti, quali Renkichi Hirato, hanno distribuito nei parchi di Tokio pubblicazioni del primo vero manifesto futurista giapponese.


Il manifesto del Futurismo giapponese di Renkichi Hirato, del 1920; sotto, la traduzione inglese di Miryam Sas. (Cliccare sulle immagini per ingrandirle).





Nel 1925 è stato pubblicato “Studi sul Futurismo”, del poeta-pittore Tai Kanbara, che tuttora costituisce una guida sicura per lo studio del Futurismo in Giappone.


Un quadro del poeta-pittore Tai Kanbara.



E’ accertato che già nel 1913 arrivarono notizie in Giappone, in diversi articoli dei giornali locali, delle musiche dei compositori Pratella e Russolo; e, nel 1921, il poeta-pittore Seiji Togō, a proposito del concerto di Russolo al Theatre des Champs Elysées, scriveva “di una musica coraggiosa che ricerca suoni per mirare ad arrivare all’essenza dell’arte”. “Rumori, non-melodia, né scala, diverso concetto di ritmo, armonia più vicina alla fisica che alla musica”, secondo le analisi del pianista compositore Giichi Ishikawa. I temi nuovi, che influenzavano l’arte futurista, anche in Giappone, riguardavano la modernità: macchine ed energie della città, suoni-rumori della vita quotidiana, ma anche riesame delle tradizioni musicali locali, in cui poter trovare un legame per il nuovo materiale musicale moderno; fenomeno comune a molti paesi ed artisti europei in quel tempo; si pensi alle ricerche etnomusicologiche di Kodàly e Bartok in Ungheria, di Liszt nelle “Rapsodie ungheresi”, al russo Glinka e al “Gruppo russo dei Cinque” (Balakirev, Cui, Musorgskij, Rimskij-Korsakov, Borodin), a Khačaturjan, al boemo B. Smetana, e tanti altri; anche se, costoro, lontani dalle poetiche futuriste, avevano l’intento contrario, quello di ripescare e valorizzare i motivi base della tradizione cultural-musicale per trasferirli nelle nuove “suite” (Le “Danze di Galanta” e “Hàry Jànos” di Kodàly, le danze polovesiane da ” Il principe Igor” di Borodin, “Gayaneh” e “Spartacus” di Khachaturian, “Le danze slave” di Dvorak, le “Rapsodie ungheresi” di Liszt, le czarde in l’ ”Hajre Kati” di Hubay, le “Hungarian Dances” di Johannes Brahms, ecc.).

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MIYAZAWA Kenji (1896-1933) e “IL VIOLONCELLISTA GAUCHE”

Un concerto omaggio alla ricchezza artistica, al mondo fiabesco e alla profondità dei valori letterari, alla fantasia poetica del prolifico scrittore giapponese Kenji Miyazawa, provetto “musicista della luce”.
Concerto per pianoforte, violoncello e voce soprano all’Istituto Giapponese di Cultura a Roma, via A. Gramsci, 74. Il 12 giugno, ore 20.00, ingresso libero.
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di Ettore Mosciàno






Una foto di Kenji Miyazawa e la raccolta di favole "Once and forever".
La locandina del concerto.



Kenji Miyazawa è autore poco conosciuto in Occidente. Poco si sa di lui, in Italia, anche se dello scrittore sono state pubblicate diverse opere. Nel 1996, ricorrendo il centenario della sua nascita, il Giappone gli ha tributato numerose manifestazioni in tutta la nazione. Un obbligo seppure tardivo ai meriti indiscutibili di un pedagogo, morto a soli 37 anni, ma con una copiosa produzione di opere di vario genere, di cui solo oggi si apprezzano completamente i valori e il grandioso lascito per le generazioni future.

Miyazawa ha costituito per molte generazioni uno degli autori più amati. I suoi scritti hanno ricevuto scarsa attenzione quando era in vita. Ha avuto solo due libri pubblicati in quel periodo: una raccolta di scritti per bambini “Il ristorante di Mary Olders” ed una prima parte della raccolta di poesie “Primavera e Ashura”. Numerose opere edite dopo la sua morte.


Due altri testi di Kanji Miyazawa



L’importanza assunta dalla letteratura per la gioventù è chiara e sentita in tutti quei paesi in cui essa è espressione di un costume, ed è camminamento per avvicinare il ragazzo all’arte, alla scienza, al pensiero.

Il mondo narrativo di Miyazawa è un palcoscenico dell’intero universo con persone, animali, piante, vento, nuvole, luce, stelle e sole.

In Giappone vi è una Associazione che si occupa di studi sulle opere di Miyazawa (la “Miyazawa Kenji Kinenkan”) e nella città di Hanamaki ha sede il “Kenji Miyazawa Memorial Museum” dove sono raccolti manoscritti, oggetti, dipinti e testimonianze varie di questo autore.

L’Istituto Giapponese di Cultura di Roma ricorda Kenji Miyazawa e lo omaggia dedicandogli un concerto per pianoforte, violoncello e voce soprano. Si ripercorrono brani musicali di Miyazawa e, per altra parte, quelle del noto compositore Hikaru Hayaschi che “ruotano” intorno ad una bella favola: “Il violoncellista Gauche”.

L’affermata pianista Kaoru Tashiro è madrina e musa di un proprio progetto che ha per tema “Il mondo di Kenji Miyazawa”. E’ lei che ha voluto rivelarci a Roma, con il concerto presso L’Istituto Giapponese di Cultura, la cultura musicale e lo spirito gioioso di Miyazawa.
“Il violoncellista Gauche” è una canzone che narra le vicende di un giovane violoncellista squinternato, Gauche appunto, che col suo continuo cercare i suoni giusti con il suo strumento, ha colloqui e richiami da diversi animali, invitato a migliorare le qualità della sua musica; ed è ciò che alla fine avviene con grande gioia di tutti.

La cartolina con gli esecutori del concerto: Kaoru Tashiro, Marida Augeri, Leandro Carino.


Prima di suonare i brani, alcune proiezioni di immagini dell’autore, del suo paese natio Iwate, e letture recitate delle canzoni-poesie “Il tour delle stelle”, “Il passaggio del grande Buddha” e “Piazza Polan”, dalla voce della stessa pianista Kaoru Tashiro, in giapponese, e della soprano Marida Augeri in italiano. Il trio musicale al completo con il violoncellista Leandro Carino. Tutti e tre musicisti di talento e spessore, con numerose esperienze alle spalle, specializzazioni.
La Tashiro, giapponese, viene da esperienze e studi a Tokio, in Messico, New York, Belgio e Mosca; è lei che oltre a farci omaggio della sua avvenenza ed eleganza, ha dato magico e sensibile tocco al piano per le sottolineature e nei passaggi di raccordo, nei ritmi giuocati.
Voce soprano molto ben educata quella di Marida Augeri, esperta di musica antica e contemporanea, di trascrizioni; molto chiara e sentita, da attrice provata la recitazione dei brani poetici, bella la voce luminosa e gioiosa del canto.
Leandro Carino, violoncellista affermato, ha suonato con i più noti e rigorosi direttori d’orchestra: Muti, Giulini, Sinopoli, Berio, Ozawa, Boulez, Krivine, Temirkanov e Fischer. Ha saputo cogliere il giuoco della narrazione favolistica musicata, simulando imbarazzi e riprese, con tecnica strumentale in piena padronanza, corpose variazioni e lievità. Applausi lunghi e richiami per più volte.

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BLENDRUMS ("TAMBURI GIAPPONESI")

Spettacolo all’Istituto Giapponese di Cultura a Roma. Suoni particolarissimi del percussionista, direttore musicale e compositore Leonard Eto, presentatosi nel costume tradizionale d’occasione per la performance teatrale, in trio con il chitarrista Natsuki Kido e il ballerino di tip tap Suji.

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di Ettore Mosciàno







Leonard Eto, a gambe divaricate e a piedi nudi, in coloratissimo ed ornato costume tradizionale di rito, di fronte al tamburo maggiore che è come un sole illuminante, di circa 2 metri di diametro, posto su un’alzata al centro del palcoscenico, come altare del rito; il battitore musicista impugna i bastoni di percussione come se avesse due fiaccole olimpiche, con una solenne postura, in posizione di simmetria, a braccia levate, di spalle agli spettatori, e medita l’inizio dei ritmi musicali, e poi cadenze e leggeri tocchi, tremolii di suoni, colpi secchi di rimbombo a una e a due mani, ancora cadenzato ritmo in zone particolari della superficie del tamburo, timbri bassi e cupi, incroci e sovrapposizioni di suoni. E’ un percussionista attore di fronte alla Natura, alla evocazione dei suoi messaggi; da essa, dal sole-tamburo estrae con studiatissima maestria tutti i fenomeni del rito, le composizioni “Waterdroops” (“Gocce d’acqua”), brano ispirato al “Kiyoki Mizutuma no Shirabe” (“Melodia della goccia d’acqua pura”) di Kimio Eto, esecutore di koto (una specie di cetra giapponese) e padre di Leonard Eto; e poi “Welcame to club Leo”, “Ocean” e “Ocean blue”, “Lion x lion” con l’aggiunta della chitarra di Natsuki Kido, “King’s Memory” con il tip tap del ballerino Suji; ed ancora tante altre composizioni in assolo di tamburi, di tip tap, chitarra.

I tamburi “taiko” hanno una singolare particolarità culturale e rituale in Giappone. Essi sono associati all’emissione di suoni primordiali, al ritmo dell’universo, all’aspetto trascendente di ogni elemento terreno; scandiscono i riti di passaggio spirituale ma sono anche considerati sedi di una forza sacra; il loro rimbombo usato anche per incutere paura, sconvolgere forze nemiche di guerra. Essi sono l’eco sonoro dell’esistere, per cui il tamburo moltiplica la voce dell’uomo, le sue sensazioni, i suoi sentimenti, e conduce verso la realizzazione delle intenzioni, dei “viaggi” esistenziali e verso il soprannaturale.

“Colloquio” di ritmi e stati d’animo tra chitarra e tamburi, a cui si è aggiunto nella seconda parte del programma un fantasioso e fantastico tip tapper di hip hop: l’eclettico ballerino snodato Suji, con le sue continue figurazioni di gesti e corpo. Abbiamo visto una “macchina ritmica”! Battute di piedi talmente rapide e ravvicinate da sembrare impossibile venissero da gambe umane; scariche gioiose e giuocate con l’intenzione di seguire, istigare o controbattere, scherzando, i ritmi dei tamburi, le corde della chitarra.

Il ballerino Suji è stato allievo del gigante del tip tap Hideboh; ha alle spalle esperienze con grandi musicisti: è stato tra gli interpreti di “Zatoichi” e "Takeshis” del regista Kitano Takeshi. Nel 2007 ha firmato la coreografia delle scene di tip tap del film “SMILE – Resti della Notte Santa” (“SMILE – Seiya no Kiseki”) del regista Jinnai Takanori.

Il chitarrista Natsuki Kido ha già numerose esperienze: musicista eclettico alla ricerca sempre di suoni diversi che ha pubblicato 6 album col violinista Katsui Yoji. E’ stato tra i membri della Salle Gaveau, una band di tango contemporaneo fondata nel 2004; ha partecipato con successo al RIO Festival 2007 e al Music Festival di Singapore. Di lui abbiamo notato l’ingegnoso e sottile accorpamento di giuochi sonori coi tamburi e i ritmi del tip tap, le delicatezze armoniche e i passaggi anche con richiami alle musiche orientali, padronanza dello strumento, abilità nell’esecuzione, sottolineature di passaggi e invito di suoni per “chiamare” i tamburi.
I tre artisti in grande sintonia tecnica e musicale sono autori delle composizioni, in vario modo associati in ognuna di esse. Applausi ripetuti e bis finale.

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Saturday, June 13, 2009

“SUMI-E“ - PITTURA giapponese a inchiostro

Una mostra di pittura giapponese dello "Studio Toba Chiba" presso l’Istituto Giapponese di Cultura di Roma.
Dal 20 maggio al 26 giugno 2009.
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di Ettore Mosciàno





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Fragilità della bellezza portata in natura dalle piante e dai fiori. Sospensione e movimento nell’aria, assenza di prospettiva, percezione dell’attimo fuggente, estrema personalizzazione del sentire la natura interiormente.

Gesti e segni di pittura meditati e di concentrazione con cui l’artista cerca di trovare in sé una educazione pittorica ed esistenziale di scuola Zen.

Da tali premesse, percezioni e filosofie, emergono le rappresentazioni grafiche di una scuola di allievi dello Studio Toba Chiba in Roma, ora presentate presso l’Istituto di Cultura Giapponese.

La pittura in Giappone, nata in stretta connessione con la scrittura, è stata, ed è ancora per molti artisti, come una calligrafia dell’anima, sia per la finezza tecnica sia per la virtuosità d’esecuzione. Importanza estetica i cui valori si distaccano da quelli che noi occidentali siamo soliti attribuire all’arte pittorica. Fiori, animali, piante, particolari di questi, più che altro in questa mostra; non prospettive, ombre, paesaggi e persone. Un rispecchiarsi degli artisti, nel loro stato d’animo, in qualche forma della natura, con semplicità e grazia. Un ideale che mira a creare una suggestione nello spettatore.






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Ikuyo Toba Chiba insegnante di “Sumi-e” a Roma



Notevole maestria e virtuosità tecnica, delicatezza e sviluppo controllatissimo dei segni, misurati tocchi di colore, sfumature ad acqua in grigio-nero troviamo in ”Erba selvatica”, in ”Acanthus”, “Rodhea Japonica” e “Uva selvatica”, “Scirpus”, “Orchidea selvatica”. Nei “Pini di Roma” gli alti tronchi, con i rami di cima inclinati al soffio del vento, richiamano l’alto valore simbolico dato dalla pittura “sumi” alle forze della natura. I dipinti appena citati sono della pittrice giapponese Ikuyo Toba Chiba,

che è la promulgatrice e maestra a Roma di questa raffinata arte.
Nella mostra sono esposti anche alcuni pannelli scorrevoli tipici delle abitazioni giapponesi. In una serie di essi la pittrice
Ikuyo Toba Chiba
ha riportato tratti di paesaggi con sezioni di cieli ed orizzonti irregolari posti qua e là sui quattro pannelli. Cieli in argento contornati in oro e rami neri di pruni fittissimi di piccoli fiori bianchi, distribuiti in basso e in alto sulle quattro mobili pareti ornamentali; l’assieme è raffigurato con l’intenzione di rompere il troppo regolare assetto rettangolare delle cornici dei pannelli e dare movimento estatico ed estetico. Un risultato di lievità e finezza stilistica e figurativa.

Nel lontano 1975, è stata la studiosa Ikuyo Toba Chiba
ad aprire nella capitale italiana una scuola di pittura a inchiostro su carta (“sumi-e”).

La “Scuola-Studio Toba Chiba
” di Roma ha avuto numerosi allievi nel corso dei trenta anni di attività, costituendo un importantissimo legame culturale tra Italia e Giappone. In molti hanno appreso in questo spazio l’arte spirituale e la cultura di rappresentare con “apparente” semplicità e naturalezza la propria interiorità, rispetto a ciò che ci viene presentato dalla Natura, dai suoi cicli stagionali floreali, dagli animali, dai momenti di vita e di morte della vegetazione.
Ci sovviene, allora, un richiamo culturale anche alla delicatezza della poesia “haiku” (quella composta di soli tre versi, 5-7-5) e alle composizioni floreali delle ”ikebana”. Pittura, poesia e composizione floreale, costituiscono un legame tra loro di spiritualità zen, in cui anche molti occidentali , filosofi, letterati, pittori, musicisti, architetti, da tempo hanno trovato soluzioni per le loro espressioni artistiche e professionali, o anche lo stato e lo spazio per una loro filosofia esistenziale.

Abbandonato l’uso esclusivo dell’inchiostro color nero, mirante più che altro alla bellezza della linea, come nella calligrafia, la pittura “sumi” ha cominciato gradatamente ad usare la diluizione con acqua per ottenere tonalità di grigio; e poi, ancora, ha inglobato l’uso dei colori; uso iniziato nella Cina del Sud ed arrivato in Giappone nell’XI secolo.

Tonalità chiare in lontananza, tonalità scure in primo piano, limpidezza senza accumulo degli elementi, equilibrio ed “umidità” per un dipinto ricco e pieno e non arido e secco, spontaneità del gesto senza ritocchi sul già fatto, nobile bellezza, priva di qualsiasi violenza e selvaggia aggressività. Questi sono alcuni dei principi della pittura “sumi” che l’insegnante artista Ikuyo Toba Chiba sottolinea nel catalogo della mostra.

Diversi gli allievi della Scuola presenti.


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Francesca Benigni,
con i suoi 3 temi, “Autunno” “Uccellino” e “Canne”, mostra sensibilità professionale che raggiunge quella della sua insegnante, specialmente nelle vivaci e straordinarie, delicate sfumature di colori del ramo “Autunno” dall’ocra al rosso, con il mosso “sfarfallio” di fiori pendenti.

Sabine Benni, in “Manto autunnale”, per l’equilibrio dei segni distribuiti nello spazio, i segni ramificati in curve, le minuzie delle foglie. Padronanza della mano e tecnica, stato di grazia anche in “Le proprie radici” della stessa artista.

Valeria Boschetti per i tratti sovrapposti ed aerei, in grigio sfumato di canne e foglie in “Lo sguardo della natura” e “Canne al vento”: con le escrescenze floreali vibranti, le linee continue date con mano lieve che s’intersecano sottilissime, senza ritocchi, le foglie distribuite nello spazio sapientemente, in un grande equilibrio d’immagine.


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Ludovica Bracciali ha misura ed osservazione attenta nel ramo isolato di “Eleganza lilla”, nei colori rosa-viola dei pampini ben distribuiti sul ramo; in “Un cuore triste”, il ramo di campanule in grigio-nero, avvertiamo lo stato di leggera desolazione per la mancanza di vivacità e colore, come in qualche momento della nostra vita, e come suggeritoci dal titolo. Ne “Gli insetti scappano”, una pianta-arbusto con pannocchie scure e spinose, le puntiformi macchie rosse sui rami sottili, intorno, disegnano un ricamo che rimette tutto il dipinto in equilibrio.

Claudia Casu ha precisa e sicura tecnica di mano nel piccolo “gioiello” di una isolata “Campanella”, dono a noi spettatori di virtuosismo e sensibilità con le sue sfumature di colore, e per “Ederina”; entrambe le opere sono isole felici di estetica. Occhio fotografico e capacità visiva di inquadratura di campo, della stessa artista, in “Take”, dove il taglio di sezione visiva di un gruppo di canne, ad altezza di sguardo, produce aerea meraviglia per la resa realistica.

Massimo Gobbi ha bravura nel rappresentare animali, studiarne le posizioni, i comportamenti. Non è facile saper cogliere, come l’artista fa nei suoi dipinti, particolari significativi degli animali che rivelino di essi un carattere specifico nelle loro movenze. I “Quattro merli” diversamente orientati e posizionati sul suolo, ad inchiostro nero, hanno coda verticale, orizzontale e inclinata, testa mossa e zampe dritte o ripiegate, colti nei loro attimi fuggenti, abilità diversificate, semplicità specifica di quegli esseri viventi. Anche il suo “Sila”, il dipinto del cane in bianco-grigio accucciato, porta i segni di una maestria tecnica. Osservazioni acute e volontà di trasmettere a noi la vita animale, darci sensazioni particolari della loro vita per migliorare la nostra vita, la nostra riflessione, darci uno stato di grazia dell’osservazione.


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Ed ancora, Fabrizio M. Rossi che in una serie di opere denominate “Impronta I, II, III, ecc” mostra una tecnica di esecuzione con fine linguaggio estetico in grigio-nero, con cui egli sa ridarci “le impronte” di fiori, rami e foglie stagliate nello spazio d’aria, in quasi totale astrazione, ma con vibrazione di luci in chiaroscuro.

Tiziana Trusiani con “Pergolato di glicine” e “Bamboo antico” ripropone, con tecnica elevata e sicura, la grazia delle sfumature di colore del glicine e l’assieme della distribuzione floreale, la flessuosa e delicata inclinazione di un ramo di bamboo su sfondo ocra; ed anche molto più artisticamente immersa in giuochi di colore, con resa estetica di inebriazione, nel quadro grande delle “Peonie”, dove gli "accesi fiori" del titolo, in rosso e viola, emergono da un fondo in foglia oro.

Valerio Rivosecchi, interiorizza i particolari in “Erbe n°1”, “Gigaro” ed “Erbe n° 2”, con tecnica ed estetica controllatissime e minuziosità; egli ha volontà di indicarci vita e bellezza significative anche nelle erbe selvatiche o nelle foglie incurvate e pendenti della velenosa “Gigaro”.

Romilda Iovacchini ha dipinto “Crisantemo rosso”, “Autunno con melograni” ed un “Senza titolo”. China in bianco-grigio per un solitario uccello su un ramo, a testa girata, in linee essenziali, disposizione delicata, curata rappresentazione. Eppoi, i suoi colorati crisantemi, con le foglie, sono un vortice di movimento. I melograni d’autunno in giallo e marrone, sugli esili rami, ci danno il segno dell’abbandono verso ciò che sta perdendo vita.

Sergio Guerrini con “Perle d’oro”, “Il bosco stregato” e “Blue iris”, mostra una tecnica di pittura più corposa e consistente, una volontà estetica più legata alla materia, non giuocando sulla raffinatezze e sui virtuosismi.

Mariano Lupo in “Autunno”, “Rapaci” e “Composizione” ha accentuate delicatezze di tecnica e di colore. In “Rapaci” le masse scure dei due uccelli ci “aggrediscono” ed hanno resa reale, così come sono poste in osservazione sul ramo.

Ennery Taramelli in “Primavera ‘09” e “Autunno ‘08” predilige l’osservazione dei frutti e dei fiori nelle stagioni, come la piena vitalità dei pampini colorati del glicine, in cui l’artista ha padronanza dello spazio e della distribuzione delle forme, tecnica di rappresentazione raffinata; mentre in “Autunno ‘08”, con le pere mature ed il ramo di noci dal guscio spinoso e invecchiato, ci porta a considerare il declino vitale dei frutti, dopo lo splendore della maturazione; segni delicati e forme isolate, tutte in ocra e grigio, come vite che stanno per andare.

Sumiko Furukawa in “Crisantemi” dipinge con semplicità ed eleganza stilistica i fiori citati, ognuno isolato dall’altro, e con diversa dimensione, in un coro che “canta” l’assieme.

Patrizia Vitti in “Crisantemi”, “Orchidea” e “Ortensia”, ha chiarezza del movimento delle linee nello spazio, distribuzione delle forme, delle sfumature, sebbene non preferisca definire minuziosamente i fiori, ma dare loro solo impronte.

Tutti gli artisti in mostra meritevoli di attenzione e di complimenti.

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Monday, June 01, 2009

ZOLTÁN KODÁLY (1882 -1967) MUSICISTA UNGHERESE, COMPOSITORE ED ILLUSTRE DIDATTA.

E’ conosciuto in tutto il mondo per il suo metodo d’insegnamento musicale detto del “Do mobile”. Il sodalizio con l’altro ungherese e amico musicista, Bela Bartok. Tra mille difficoltà ha insegnato all’Europa e al mondo l’arte di coltivare e sentire l’armoniosa sostanza dell’appartenenza etnica ad un territorio e alle sue tradizioni.
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di Ettore Mosciàno













Testimonianza e dovere di riprendere e tener viva, nel rinnovamento, l’anima culturale e poetica, il carattere drammatico e gioioso e la storia di una nazione. Nelle sue composizioni un’attenta costruzione di melodie e armonie di ampia portata strumentale, cromatismi delicati e risalite timbriche avvolgenti per le danze caratteristiche della sua terra d’origine.
Se lo spirito spagnolo ha avuto il suo più valido cantore in Manuel de Falla, l’Ungheria ha la sua anima, continuamente fluttuante, tra le note di Kodály. Tra le altre cose, è risaputo che i due musicisti compositori, lo spagnolo e l’ungherese, frequentarono pittori impressionisti e musicisti francesi, più o meno nello stesso periodo, a Parigi, tra il 1906-1907. Molto colore e romanticismo, giuochi di luci ed atmosfere, come per gli impressionisti, si ritrovano anche nelle opere musicali di de Falla e Kodály.

Zoltán Kodály fu gran maestro educatore e compositore ed etnomusicologo.
Nato a Kecskemét, in Ungheria, nel 1882, ha trascorso la sua infanzia nella cittadina di Galánta e a Nagyszombat (Slovacchia). Da bambino ha studiato violino. Cantava nel coro della cattedrale della sua città.



Suo padre era un musicista dilettante. A 18 anni entrò all’Università di Budapest per studiare lingue e letterature moderne. Nello stesso tempo iniziò gli studi musicali all’Accademia Franz Liszt nella stessa città, sotto la guida di Hans Koessler per la composizione.
Dal 1905 visitò i villaggi più lontani e sperduti per raccogliere informazioni sui canti popolari dei vari paesi d’Ungheria e delle zone limitrofe. Nel 1906 preparò la sua tesi su “Costrutto strofico nei canti popolari ungheresi”. Fu in questo periodo che conobbe l’altro compositore ungherese, Bela Bartók. Amici di grande intesa professionale, Kodály e Bartók pubblicarono numerose collezioni di musica popolare e produssero in proprio molte scritture, sostanzialmente imbevute di quelle notazioni musicali rielaborate.
Dopo la laurea in filosofia e linguistica, Kodaly andò a Parigi per studiare con Charles Marie Widor. In questo periodo, 1906-1907, conobbe la musica di Claude Debussy e di Musorgskij, e frequentò gli impressionisti. Nel 1907 rientrò a Budapest per assumere l’incarico di professore nella locale Accademia di Musica.








E’ dallo “zingarismo” di Liszt (1811-1886), l’altro loro illustre connazionale ungherese, che prendono inizio gli studi di etnomusicologia di Kodaly e Bartok. Liszt aveva scritto e pubblicato “Sugli zingari e la loro musica”, “Rapsodie ungheresi” per pianoforte, il poema sinfonico “Hungaria”. Ciò che per Liszt era musica gipsy ungherese si rivelò, ad un più attento esame dei nuovi studiosi, scritture di mani esperte e acculturate. Musiche poi contaminate da zingari ungheresi, con alterazioni di comodo per rendere le melodie e i ritmi più gradevoli alle orecchie “straniere”.


Nel viaggiare e indagare, Kodaly e Bartok, come riflesso delle dottrine romantiche diffuse in Europa dai maestri dell’Ottocento, hanno riportato i loro studi e le loro ricerche alle primitive purezze musicali del folclore nazionale, quelle magiare e non proprio zingaresche.
Bela Bartok, oltre al folclore musicale della sua terra, estese le sue ricerche anche alle musiche della tradizione rumena, slovacca, bulgara e dalmata.


Zoltan Kodaly e Bela Bartok (in piedi).


Danze ungheresi furono trascritte con accomodamenti e variazioni dal folk popolare, senza snaturarle, anche dal tedesco Johannes Brhams (1833-1897). Le "Danze ungheresi" di Brahms sono 21, originariamentye per piano e, molte di esse, poi, arrangiate per orchestra. Ulteriore esempio di un interesse che già aveva avuto precedenti anche in altri due : l'austriaco Franz Schubert (1797-1828, "Divertissement a la hongroise") che ha sostato e lavorato a lungo in Ungheria presso il conte Esterhazy, e l'altro tedesco Carl Maria von Weber (1786-1826, "Andante e Rondò ongarese").


Nella seconda metà dell’Ottocento, comunque, tanti musicisti compositori europei hanno seguito l’orientamento indicato da Liszt (Glinka e seguaci in Russia, Smetana e Dvorak in Boemia, Niels Gade e Grieg in Scandinavia). A Liszt resta il merito di una energia contaminante per questo settore del folclore musicale nazionale, oltre naturalmente alla grandezza geniale e prolifica della sua mente, al merito per la sua ampia attività concertistica e per il lascito delle numerose scritture.





Kodaly (a sinistra) e Bartok (a destra) entrambi seduti, con amici.


Lo spirito ungherese è presente in maniera egualmente evidente, in Kodaly, sia nelle cantate e sia nella partiture per strumentazione e, per questa ragione, la sua musica è stata accolta con favore e comprensione sia in Ungheria sia all’estero.



L’opera “The Peacock” (“Il Pavone”)


The Peacock”, uno dei lavori più apprezzati, è una serie di variazioni musicali su un tema di una canzone popolare ungherese. Queste variazioni orchestrali furono scritte per il 50° anniversario della Fondazione della Concertgebouw Orchestra di Amsterdam ed eseguite per la prima volta nel 1939, con grande successo.

La melodia di “The Peacock” oltre ai richiami della musica popolare ungherese porta anche echi di motivi popolari asiatici. L’opera prende spunto dal testo del poeta Endre Ady, il quale aveva usato il pavone come simbolo di libertà nazionale. Kodaly compose una messa in scena per un coro maschile del testo di Ady. Due anni più tardi riprese questo lavoro per farne una composizione per orchestra. Di quest’opera, Kodaly ha detto: “Per comprenderla, non è necessaria una conoscenza musicale. Ma dobbiamo sapere della sua nascita come canzone popolare, della sua “crescita” come fiore nel deserto. Le variazioni sono i più naturali sviluppi della musica folk, serie di melodie che si sviluppano una dall’altra, senza fine, con cambiamenti di passaggi che non si notano. E’ un peccato che i nostri compositori non scrivano più spesso variazioni su canzoni folk…Non possiamo sapere o comprendere completamente la storia di un periodo senza conoscere la sua musica…Perciò vi è una legge nel regno delle umane emozioni, che solo la musica può esprimere, e nient’altro”.

Solo quando conosciamo il punto di vista di Kodaly sulla musica, noi possiamo comprendere le sue intenzioni nelle composizioni delle “Danze di Galanta” e delle “Danze di Marosszek”.


La suite “Háry János”


Kodaly scrisse poco per la scena. Il suo singspiel “Háry János” (canto recitato), più compiutamente conosciuto nella versione orchestrale, tratta di un vecchio soldato, Háry János appunto, esuberante e fantasioso, che con la sua vivida immaginazione non distingue tra realtà e fantasia; in ciò consiste la sua esaltazione sulla scena nel “recitar cantando” un’artefatta sconfitta di Napoleone e delle armate francesi. “Hary Janos” è personaggio dei racconti popolari ungheresi, un ostinato fanfarone molto simpatico che, seduto in una osteria, chiama persone ad ascoltare le sue avventure, tra cui quella della battaglia contro Napoleone, le avventure amorose con l’imperatrice Maria Luisa, i generosi onori a lui conferiti in qualità di nuovo gradito imperatore.
Lo spunto della suite viene da una canzone popolare. Kodaly fece di essa prima una composizione per sola viola e poi un arrangiamento per orchestra. L’opera risulta molto suggestiva e divertente, da vedere ed ascoltare.



La musica, come la storia, è essenzialmente ungherese, con una introduzione che porta ai movimentati schiamazzi di una fiera. Gravi ed ariose, lente note, che vanno ampliandosi ed intrecciandosi fino al serrato ritmo che apre alla scena della fiera movimentata dai popolani; poi uno stacco-intervallo con il suono delle festose campane (sono simili a quelle dell’orologio della Cattedrale di Vienna, con le figure dei soldati in movimento che marcano le ore).

L'orologio della Cattedrale di Vienna di cui ascoltiamo i suoni nella suite "Hary Janos" di Kodaly.



La canzone del terzo movimento della suite è un duetto sentimentale tra Janos ed il suo primo amore, Orzse: una delicata armonia di note con il suono “ondulato” del cimbalom (strumento a percussione, e a corde, tipicamente ungherese, simile alla cetra, di forma trapezoidale con gambe come quelle di un tavolo, usato ancora dai gitani nelle loro musiche). Segue la musica che vuol rappresentare beffardamente la Marsigliese e Napoleone durante la fuga raccontata da Janos, fino alla solennità della marcia funebre evidenziata da un malinconico sassofono; quindi i festeggiamenti nella “palazzo imperiale” per il “nuovo imperatore” Hary Janos. L’entrata dell’imperatore con la corte è il punto culminante della carriera di un eroe. Una vivace marcia introduce la Guardia Reale e Janos imperatore con la sua corte. L’opera sul popolano Janos che diventa imperatore, oltre a suscitare molto divertimento e simpatia per il personaggio e per le scene, è costruita sapientemente e brillantemente dal punto di vista musicale, per la complessa e ricca strumentazione, il colore dei timbri ed i motivi più divertenti spesso ripetuti e richiamati. Straordinarie e magistrali doti di Kodály che ci riportano a quel mondo surreale, fantasioso e colorato, della pittura di Chagall, quella del “carro che vola sopra la città” e del ”violinista sul tetto”.

In aggiunta alla suite orchestrale di “Hary Janos” ed alle variazioni sul tema di “Peacock” (“Il Pavone”), anche tutta la musica delle “Danze di Galanta” e delle “Danze di Marossézk” derivano da materiale musicale folk-popolare.


Le “Danze di Galanta”


Le melodie delle “Danze di Galanta” (prima esecuzione 23 ottobre 1933) furono composte per l’80° anniversario della formazione della Budapest Philharmonic Society. Tali riferimenti melodici furono presi dalla collezione in 4 volumi delle “Originelle ungariche Nationaltänze” e dall’album “Ausgesuchte Zigeuners au Galantha” (“Selected Hungarian National Dance of varius Gypsies from Galanta”).


La copertina di un 33 giri per le musiche di Kodaly, etichetta Hungaroton distribuito in Italia dalla Carish.
Un disco con musiche gypsy che include le "Danze di Galanta"


Le ricerche di Erwin Major hanno stabilito che alla fine del 18° secolo i gitani di Galanta non avevano mai suonato senza scrittura musicale e che essi, non solo suonavano musica ballabile (come le “verbunkos” o cantate”), ma si esibivano con orchestre di un certo rango. La loro fama andrà affievolendosi agli inizi del 19° secolo. La gloriosa memoria della loro età d’oro è stata fornita da un cronista fedele dell’epoca in una gazzetta del 1851, in cui si dice “Galanta…i gypsies di questa terra sono famosi musicisti”. Nella prefazione alla scrittura musicale delle "Danze di Galanta"appare chiaro, Zoltán Kodály voleva continuare la vecchia tradizione musicale. Egli dice: “I migliori intellettuali d’Ungheria presero coscienza quasi contemporaneamente che essi avevano la stessa responsabilità per il passato, come per il futuro, e che le ereditate melodie davano loro forti legami con le antiche tradizioni e i più importanti interrogativi, con stimolante energia, per il loro e nostro futuro destino. Coniugare il passato e il presente non era un sogno passivo…era un’attiva compensazione di scritture e professione, vocazione, su ciò che poteva morire”.





Nelle “Danze di Galanta” Kodály dipinge un affresco dell’Ungheria dell’800, mentre nelle “Danze di Marosszék porta indietro l’ascoltatore al secolo 17°.
Le “Danze di Galanta” furono scritte originariamente per piano. Per la versione orchestrale Kodály adattò la partitura, più facilitata, ad un miglior suono per gli strumenti ad arco (passando dal DO diesis minore al DO diesis maggiore, RE minore al RE maggiore).
A Galanta, Kodály trascorse diversi anni della sua infanzia, e qui conobbe – nell’esecuzione di un’orchestra gitana – un patrimonio di danze vecchio di qualche centinaia d’anni.
La composizione si articola in cinque danze che si succedono in un crescendo costante, con una introduzione ed una conclusione. Vi è una grande varietà di colori orchestrali e di ritmi di danza, aperture ampie ed arie di grande sinfonia coinvolgente. Il tema della prima danza è riproposto di tanto in tanto per collegare le varie parti e dare unità all’intera partitura.


Le “Danze di Marosszék”


La melodia principale delle “Danze di Marosszék” fu pubblicata nella sua variante strumentale, proveniente da una canzone folk, nell’articolo “Hungarian Folk Music”, come contributo al “Musical Dictionary” del 1930. Kodály scrisse che la melodia proveniva da Gyergyóromete (altre melodie usate non erano – lui disse – dei paesi Maros-Jorda ma della Bukovina e di Gyergyó).

La composizione fu eseguita per la prima volta nel 1930 e, come per le “Danze di Galanta”, forniva un giro di pezzi di varie melodie incorporate e arrangiate, con introduzione, sintesi di melodie armonizzate tanto da “resuscitare” l’anima vivente e il respiro vitale e ritmico del popolo ungherese.
Il passato, significativamente per Zoltán Kodály, non è un romantico e nostalgico sogno di una vita dimenticata, ma un programma modellato in una vita che mette-fissa-dispone-regola un obiettivo, accende fiaccole nella nebbia e risveglia suoni. Nessun poeta può fare di più per il suo popolo, nessun uomo dare di più all’umanità delle cose che vivono e sono portate alla fruizione nell’arte nuova” – disse Bence Szabolcsi nel 1926.


Musica vocale e corale, esercizi


Una copertina per le musiche di Kodaly e del Coro maschile Bela Bartok di Pecs.



Kodály ha scritto molto per la musica vocale e corale, soprattutto come elementi essenziali per una generale educazione musicale. Egli ebbe i suoi più grandi successi molto presto con il “Psalmus hungaricus” del 1923 e con il “Te Deum” del 1936, con il quale si celebrò il 250° anniversario della riconquista di Buda, liberata dai Truchi.


L'autografo del "Psalmus hungaricus"

Una copertina per la "Missa brevis"



La “Missa brevis” fu scritta durante gli ultimi anni della guerra 1939-45. Un’azione della “Missa brevis”, quella tra Gesù e i mercanti, ha avuto sempre un grande positivo riscontro di pubblico.


La pedagogia musicale di Kodály








La pedagogia musicale di Kodály ha investito l’istruzione a tutti i livelli scolastici, dall’asilo all’università, rinnovando, attraverso scritti di musica corale, esercizi, lezioni e tenendo corsi per moltissimi docenti, rimasti validi suoi sostenitori e continuatori dei suoi concetti d’insegnamento. Non un vero e proprio metodo, ma una copiosa messe di articoli, conferenze, lezioni, esercizi che hanno fatto in modo che si realizzasse una “filosofia” kodályana che seguisse itinerari fondamentali pedagogici. come quella che “la musica per essere un bene comune deve essere accessibile a tutti, non può essere un bene elitario e rimanere relegata in una torre d’avorio”. “L’educazione alla musica deve iniziare molto presto (già nel grembo materno) perché il gusto e le abilità sono maggiormente influenzabili in età infantile”. “Importante è la scelta del materiale musicale da utilizzare nell’insegnamento”. “Ritmi adatti all’età e melodie rioprese dalla musica popolare di alto livello artistico”. “Coinvolgere nell’educazione musicale il maggior numero di persone con l’unico mezzo possibile ed attivo che è quello del canto corale, che ha come strumento d’approccio la voce, che tutti possiedono”. “Prima di creare strumentisti è opportuno creare coristi”. “Una cultura strumentale non può diventare cultura di massa”. “La voce è lo strumento più naturale ed accessibile a tutti; essa permette di vivere in modo creativo l’esperienza musicale, sviluppare l’orecchio, l’organo più trascurato nell’insegnamento scolastico. Con la voce l’uomo si mette in relazione con gli altri e con il canto, quale manifestazione particolare, egli ha un processo di adattamento e socializzazione, sviluppa il buon utilizzo espressivo e matura la sua emotività naturale”.


Statua di Kodaly

* Le brevi citazioni virgolettate, e sopra appena riportate e sintetizzate, sono state prese da “Appunti del corso Kodály's Pedagogical Philosophy" tenuto dalla Prof.ssa Éva Vendrei durante il corso annuale in Pedagogia musicale, Anno Accademico 2002-2003, presso l'Istituto di Pedagogia musicale Zoltán Kodály (Kecskemét, Ungheria).

* Kodály ha scritto una vasta serie di esercizi di difficoltà progressiva e di alto livello artistico. Alcuni sono stati pubblicati in Italia dalla casa editrice Carish, per gli altri si indicano la casa editrice ungherese (Editio Musica Budapest) e quella inglese (Boosey& Hawkes), come da informazioni dell’Associazione Italiana Kodaly di Firenze.

* Nella nuova edizione a cura di Giusi Barbieri, Uni Service Editrice, un libro fondamentale: “La pedagogia della musica secondo Zoltán Kodály” di Giovanni Mangione. pgg. 87, 11 euro .
(vedi in: http://www.uni-service.it/la-pedagogia-della-musica-secondo-zoltan-kodaly.html)





Il libro di Giovanni Mangione



Il libro illustra in modo chiaro e operativo i primi passi per l'apprendimento della musica secondo il concetto Kodály. Seguendo la programmazione proposta, l’insegnante guiderà il bambino ad acquisire in modo naturale i primi elementi del linguaggio musicale e ad utilizzarli in modo creativo.

*Giovanni Mangione
, autore del testo sopra citato, è stato fondatore in Italia, nel 1975, del Centro Studi Musicali secondo Zoltán Kodály dopo il suo rientro dai corsi di studi musicali ungheresi, per i quali aveva ottenuto dal Ministero degli Affari Esteri una borsa di studio. Nel 1990, dalla trasformazione del Centro di Studi Musicali Kodály è sorta l’AIKEM (Associazione Italiana Kodály per l’Educazione Musicale) che si trova a Firenze (vedi al sito internet: http://www.aikem.it/index.htm).

*L'AIKEM aderisce al Forum per l'Educazione Musicale coordinato dalla SIEM (Società Italiana per l'Educazione Musicale).
*Il IV° Seminario "La pedagogia della musica secondo Zoltán Kodály" e il "2° Corso di lettura musicale in solmisazione" si svolgeranno a Marina di Pietrasanta (LU) dal 24 al 29 agosto 2009.
*Altro materiale disponibile: la tesi di laurea “Zoltán Kodály e la voce ungherese” di Diana D'Alessio, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, Anno Accademico 2003-2004.


Alcune immagini di Galanta, luogo dove ha trascorso la fanciullezza Kodaly. E' la cittadina in cui il compositore ha ascoltato per la prima volta le musiche gitane che hanno dato ispirazione agli studi e alla composizione delle "Danze di Galanta", di cui si è detto.

Una strada di Galanta, in Slovacchia.
Due immagini del Castello neogotico di Galanta, in Slovacchia.





La Chiesa di Santo Stefano di Galanta.

Una fontana di Galanta.

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